Dal catalogo “Sarajevo”, recensione di Gianfranco Labrosciano

SARAJEVO

L’opera “Sarajevo” è l’immagine plastica di una sconfitta, l’invenzione poetica di un dramma che si conclude a scapito degli abitanti di una città ma il cui rimando è quello di una morte suprema in questo scorcio di secolo desertico e senza vita.

E’ la stessa configurazione della celebre “Guernica” di Picasso, la medesima funzione che l’artista assegna all’opera come rimando della Storia e della storia dello spirito. Solo che i mezzi usati sono di tipo classico e non ancora affidati al canto di una forma autonoma e compiuta.

Eppure il richiamo accademico sembra puramente provocatorio, nel senso che serve a stimolare l’invenzione poetica, dopodiché viene bruscamente interrotto e riportato nella creatività e nel contingente.

C’è un esempio grandissimo di un tale procedere nella storia della scultura: Gian Lorenzo Bernini.
Il grande scultore dava inizio all’opera avendo in mente una figura classica, dalla quale si discostava procedendo nel lavoro preparatorio.

Così, mi pare, ha preceduto Eugenio De Luca in questo lavoro, il cui referente culturale ed emozionalmente carico ha fatto sì che si allontanasse, sia nello spirito che nella forma, dal prototipo classico.

Nella prima figura del giovane eretto col braccio levato come a proteggersi da un danno o a resistere di fronte a esso, l’evidente riferimento allo spazio corporeo e il chiaro virtuosissimo manifestano il serrato confronto dello scultore con l’ideale michelangiolesco, per il quale il nudo non era un classico, ma l’ideale classico ripensato in termini di civiltà giudaico-cristiana, e le figure titaniche, colossali, evocavano un tempo anteriore alla storia perché creature di una bellezza ultramondana e fuori dalla forza umana.

Per Eugenio dunque la pura imitazione dell’arte antica è priva di senso, e la ricostruzione formale dell’arte classica è piuttosto intellettuale, poiché come quella era ossessionata da una grandezza oltre i limiti dell’uomo, la sua “Sarajevo” è un compendio della storia dell’uomo del Novecento e una vasta etica di peccato e di sofferenza.

Il modello accademico di riferimento e il David, e il valore titanico del volume sottolinea quello rituale del monumento da cui si evince l’eloquente sapienza anatomica. Ma l’audacia allusiva al sommo fiorentino è pari almeno a quella per cui se ne distacca.

Anzitutto quanto alla tecnica, che viene definita per modellamento addizionale, riempimento e integrazione mediante l’uso dell’argilla e della resina, laddove in quella si descriveva per sottrazione della materia del marmo. Ciò nonostante la figura, pur non possedendo la carezzevole vibratilítà del marmo mantiene una dolce superficie, compatta e calda come quella di un involucro levigato.

Anche il colore bronzato accentua i trapassi dei piani sottolineando le penombre e i valori strutturali. Ma non è solo questo. Il David alludeva, con tutta la sua possente statura, a un atteggiamento di resistenza di fronte ai nemici di Firenze. Questa figura giovanile – di un colosso dai piedi che sbriciolano, che si protegge col braccio da un’offesa ingiusta e indesiderata, che lotta dinnanzi alla condizione imposta dalla dimensione del mondo – resiste invece a forze oscure, a impulsi di distruzione e morte che resiste vanno detrimento del genere “uomo” la cui stoltezza determina il suo destino.

Quello dell’uomo di Sarajevo – e segnatamente dell’uomo moderno è un destino tragico, di guerra e di sterminio. Nessuna consolazione da questa tragedia, a meno che non si esca fuori con un qualche significato ultramondano – ed ecco l’aggancio con l’arte dell’età classica e il suo legame con l’esperienza trasmondana della bellezza – che distruggendo il negativo dia fondo al positivo dell’uomo, capovolgendo le prospettive e le ragioni politiche, di potere, di fredda razionalità e ciniche per le quali si è smarrito.

Il significato simbolico di questa figura è dunque tutto nel braccio levato, che sottolinea l’urto e lo scontro dell’uomo con se stesso, in questa fine di secolo in cui pare che siamo tutti al tramonto e dobbiamo morire per rinascere.

La seconda figura – di una donna sfinita, violentata e discinta, fino a metà ricoperta da cenci e gravata da un dolore muto e senza speranza – è l’immagine scolpita di una compunta solitudine, quella della donna indifesa dinnanzi al mondo e alla storia. Essa testimonia di un linguaggio, anche artistico, costruito fra la classica compattezza e la disarmata semplicità, tra l’ordinario e la classica solennità.

Un’estrema pietas trabocca da questa figura, un amore profondo che nessuna guerra può distruggere. Sicché l’intenzionalità dell’impianto accademico Eugenio si dichiara. E’ traccia di uno stile che è diventato forma di contenuti interiorizzati e rappresentati fedelmente, come il pungolo o il tabernacolo di una passione. E questa è una grande lezione di arte.

Questa figura, che emerge dalla materia in uno spazio tridimensionale e fuoriesce dall’opera stessa concettualmente, con tutta la sua disarmante semplicità, quasi a implorare il riconoscimento della sua presenza in un mondo alluvionato da una cultura fuorviante e dai miti di una civiltà guerrafondaia, è una coscienza muta che ci interroga. E’ traccia del tempo della nostra vita, che rende evidente l’urgente necessità di riportare alla luce un nuovo ordine nel mondo in vista di un’esperienza fondamentale dello spirito.

Qui l’accenno all’elemento metafisico si fa più scopertamente religioso. Le mani giunte, appena distinguibili in atteggia- mento di preghiera, rivelano l’afflato e lo slancio, il lancio verso l’alto dell’immenso serbatoio della vita.

La terza figura rivela il volto di una maschera informe che affiora dalle profondità di un labirinto inestricabile, un esse- re amorfo che ha viaggiato nel tempo con una sua precisa identità ed è giunto fino a noi con una chiara progettualità di morte per l’avvenire.

E’ una presa di consapevolezza anche riguardo alla forma. Manifesta la volontà non solo di abbandonare i canoni della scultura classica, ma quella di elaborare una forma che sia coerente con l’intimo travaglio spirituale dell’artista, al fine di percorrere spazi anche semanticamente deducibili all’in- terno di una linea progettuale e di riconoscimento esistenziale.

E’ una scultura in ferro e resina sulla quale sia la Sovrapposizione di stratificazioni materiche, sia l’impiego del due elementi rendono l’idea di una doppia concettualità. Da una parte l’uomo si è arreso, si è inginocchiato davanti allo spettacolo del mondo; testimone e artefice della sua sconfitta, ha sfaldato la sua struttura che si è ridotta in lacerti, brandelli di carne e di ossa provocati da una malattia che l’ha devastato senza rimedio. Dall’altra parte è un uomo che tende ancora il braccio. Ma questa volta non si tratta di resistenza.

E’ una larvata difesa, un gesto col quale cerca di coprirsi, ma inutilmente, poiché tutto è compiuto. Il braccio è sproporzionato, repellente, e la sua mano evidenzia l’ab- braccio con la morte che tutto ghermisce. “Sarajevo” è una guerra definitiva dove giace sconfitto l’homo sapiens, quello dell’intelligenza artificiale e lo stesso che è andato sulla luna. Quest’opera è un monito per le generazioni future, per quelli che verranno dopo questo secolo disordinato e caotico. Soprattutto per i giovani davanti all’orrore che il Novecento ha generato. Per questo, al suo apparire, Eugenio De Luca è egli stesso un classico, perché pur operando nella contingenza ha mostrato di guardare a una storia senza tempo, al di là dei confini dello spazio.

E si potrebbe continuare ad oltranza per la vastità del tema che il gruppo suggerisce. Ma fermiamoci qui, evidenziando solo qualche aspetto del lavoro d’insieme. Il punto di vista del gruppo è multiplo. E’ un punto focale qualunque posto al di fuori del gruppo stesso, in un luogo imprecisato dello spazio che coincide esattamente con quello in cui viviamo e ci muoviamo. Sicché il gruppo assume piuttosto il valore simbolico di un crocicchio, uno di quei luoghi che rappresentano l’incrocio dei cammini, il cammino di tutti, e davanti al quale occorre fermarsi prima di scegliere la via da seguire.

Per questo, più che da un punto di vista formale è sul piano concettuale che va cercata l’unità di questo lavoro, che a sua volta segna il cominciamento dell’opera di Eugenio De Luca. Un’opera che, viste le qualità tecniche e morali dello scultore – non mancherà di stupirci, atteso che fra le funzioni fondamentali dell’arte c’è quella di risvegliare un antico stupore, che in ultima analisi corrisponde all’amore e al rispetto per la vita. 

Guerre, sopraffazioni dei diritti altrui e rivendicazioni, sono l’eterna tragedia dell’umanità. Le conseguenze di questo convulso modo di vivere determinano nella grande massa degli uomini la miseria, la fame, le violenze e i lutti che sono seminatl dovunque. Mi sono domandato se l’arte possa aiutare a sconfiggere le assurdità della guerra!…. La risposta è stata: Si, può farlo.

Eugenio De Luca